Calma piatta L’Europa chiamata alla prova più dura Il clima respirato al vertice Ue di Bruxelles sui migranti, ricorrendo al linguaggio marinaresco, Hermann Melville l’avrebbe detto di “calma piatta”. Non precede necessariamente la tempesta, ma nemmeno assicura che torni a spirare per tempo un po’ di vento. Meglio mettersi sotto coperta. È importante che siano cessati certi isterismi in cui alcuni paesi dell’est si sono prodigati. I danni prodotti dal muro di Orban resteranno tutti. Si tratta di un marchio di infamia che grava sull’Unione e che non sarà rimosso facilmente, nemmeno con le buone intenzioni ed i miti consigli a cui sembrerebbe essersi piegato il premier ungherese. Stiamo tranquilli che ci sono degli emuli pronti all’azione. Non è che la Francia, e persino Inghilterra, con i loro comportamenti al confine di Ventimiglia o a Calais, siano stati propriamente esempi di accoglienza. La Germania, invece, ha mostrato un’apertura da grande paese generoso e civile, ma è dal luglio scorso che la sua polizia si scontra con formazioni neo naziste desiderose di bruciare gli ostelli dove sono ospitati gli immigrati. Capiamo benissimo le preoccupazioni di chi si vede improvvisamente sottoposto ad un’ondata migratoria di queste dimensioni. A maggior ragione serve subito cercare di fare il possibile per contenerla, non per respingerla. Il presidente del Consiglio italiano ha detto una cosa giusta quando ha ricordato le nostre responsabilità in Libia per aver ingerito negli affari interni di quello Stato, ed in Siria per non averlo fatto. Il che ci pone un problema di ordine morale, ma in termini politici, la crisi di quei paesi non è risolvibile a breve termine e fa un certo effetto sentire che Angela Merkel avrebbe parlato con Obama di transizione pacifica a Damasco dove stanno sbarcato le truppe russe, non i peacekeaper delle nazioni unite. A proposito di nazione unite, sono mesi che il loro mediatore Bernardino Leon vagheggia un accordo fra le tribù che si combattono tra Tripolitania e Cirenaica. Tra un po’ scade il suo incarico e quelle continuano a combattersi. La ragione è semplice: ci sarebbe voluto un contingente militare occidentale per gestire il dopo Gheddafi, come si è fatto in Iraq per il dopo Saddam. Non che questo non offra il fianco e delle controindicazioni, ma almeno a Baghdad c’è un governo nazionale con cui si può collaborare. In Libia manca, in Siria lo si vuol addirittura veder ancora saltare. Una fase come questa richiederebbe davvero che tutti si comportino e la pensino come l’Italia, dove pure vi sono alcune discrepanze legislative da risolvere, ed una confusione indescrivibile nei centri di accoglienza. Ma almeno evitiamo i colpi di testa. L’idea di mettersi ad affondare le imbarcazioni degli scafisti, ad esempio, essendo azione di guerra, presumerebbe per lo meno un mandato Onu. Dio ce ne scampi. L’unica cosa sicura è che questa si, è la prova più dura a cui è sottoposta l’Unione europea, altro che la crisi greca. Se la si regge e la si affronta con la decenza mancata finora, avremo almeno la possibilità di un futuro comune migliore. Se invece falliamo, l’immigrazione non verrà fermata lo stesso e inoltre dovremo prepararci ad affrontare i fantasmi di un infausto passato che la vecchia Europa non ha mai sepolto abbastanza profondamente. L’Ungheria ce lo ha già ricordato stendendo il filo spinato. Roma, 24 settembre 2015 |